'Seta' di Alessandro Baricco, per me non è un libro. Sono due. Un po' perché ne ho davvero due copie - pensavo di averlo perso (Bur, 2002) e, presa dalla disperazione, ne ho comprato subito un'altra copia (Feltrinelli, 2013), appena l'anno scorso. Salvo poi ritrovare, giusto ieri, il libro 'originario'. Due libri, due facce dello stesso scritto: da un lato c'è il romanzo breve e una storia ancora più breve (i viaggi in Oriente di un commerciante francese di bachi da seta e la sua attrazione per una cortigiana giapponese senza nome e senza voce), le parole scritte sulla carta giallognola, la copertina semi-lucida, dall'altra c'è qualcosa di diverso. Dietro le parole, c'è un quadro. A volte è un giardino impressionista (molto simile al ponticello giapponese di Monet), a volte è una xilografia giapponese, altre stringe il suo fuoco sui dettagli più minuscoli come solo Vermeer sapeva fare.
Baricco non ha scritto questa storia impalpabile ("Se la tenevi tra le dita, era come stringere il nulla"), l'ha tratteggiata con un pennello da calligrafia, inchiostro grigio tenue, un haiku con a fianco il disegno appena abbozzato di uccelli in volo.
E' giapponese in tutto - gode del suo essere essenziale, esalta la semplicità, la descrizione nuda, i punti fermi, le frasi cortissime, i dialoghi come epigrafi.
"Pioveva la sua vita, davanti ai suoi occhi, spettacolo quieto"
E' stato curioso verificare, a distanza di anni, le diverse orecchie dei due libri. Nel Seta 'primigenio' (se posso chiamarlo così), erano molte meno. Alcune sono rimaste le stesse...
"Così vide,
alla fine,
all'improvviso,
il cielo sopra il palazzo macchiarsi del volo di centinaia di uccelli, come esplosi via dalla terra, uccelli d'ogni tipo, stupefatti, fuggire ovunque, impazziti, cantando e gridando, pirotecnica esplosione di ali, e nube di colori sparata nella luce, e di suoni, impauriti,
musica in fuga, nel cielo a volare.
Hervé Joncour sorrise."
[...]
"-Cosa sono?
-E' una voliera.
-Una voliera?
-Sì.
-E a cosa serve?
Hervé Joncour teneva fissi gli occhi su quei disegni.
-Tu la riempi di uccelli, più che puoi, poi un giorno
che ti succede qualcosa di felice la spalanchi, e li guardi volare via."
"Hélène raccontò di Lavilledieu, e di tutti quei mesi passati
ad aspettare, e degli ultimi giorni, orribili.
-Tu eri morto.
Disse.
-E non c'era più niente di bello al mondo."
...altre, più amare, sono rimaste indietro...
"-Non ho mai sentito nemmeno la sua voce.
E dopo un po':
-E' uno strano dolore."
Questa storia d'amore senza nome, senza voce e senza futuro, non è nient'altro che un insieme di gesti, di riti, a volte sono solo occhi e mani e sensazioni.
"Acqua come olio. E un silenzio strano, intorno. Sentì la leggerezza di un velo di seta che scendeva su di lui. E le mani di una donna - di una donna - che lo asciugavano accarezzando la sua pelle, ovunque; quelle mani e quel tessuto filato di nulla. Lui non si mosse mai, neppure quando sentì le mani salire dalle spalle al collo e le dita - la seta e le dita - salire fino alle sue labbra, e sfiorarle, una volta, lentamente, e sparire."
E' come guardare una cerimonia del tè, tra gesti rituali, forse inutili (sono foglie e acqua e vapore, nulla più), ma carichi di un significato senza tempo, che non lascia in bocca altro se non un sapore amaro.
"E dopo un po':
-E' uno strano dolore.
Piano.
-Morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai."
Ma nella seconda copia in mio possesso, mi sono accorta di aver indugiato, più che sulla storia d'amore, sulla moglie del commerciante, Hélène. Sulla sua concretezza della sua presenza e della sua voce.
"Vide sua moglie Hélène corrergli incontro, e sentì il profumo
della sua pelle quando la strinse a sé, e il velluto della sua voce quando disse
-Sei tornato.
Dolcemente.
-Sei tornato."
"Viaggiavano senza date e senza programmi.
Tutto li stupiva: in segreto, anche la loro felicità."
Nonostante questo o forse proprio per questo, e nonostante l'orecchia che in entrambe le copie sovrasta tutte le altre, non posso trascrivere questa lettera d'amore di una donna senza nome. Sarebbe come mettere un'orecchia alla Gioconda. Entrare nella stanza mentre Hervè Joncour e la donna misteriosa consumano questa alchimia su un foglio di carta e "Quel che era per noi, l'abbiamo fatto, e voi lo sapete. Credetemi: l'abbiamo fatto per sempre". Ne esco ogni volta in punta di piedi, trattenendo le lacrime e un'immensa eccitazione mista a nostalgia, appagamento e senso di impotenza.
Ma ho segnato, proprio oggi, una delle ultime pagine, che forse ancora meglio racchiude l'essenza di quello scritto, lo mette a fuoco, ne delinea i contorni; un po' come passare da un ritratto impressionista a un paesaggio di Turner. Limpido, cristallino, uno "spettacolo quieto":
"Sapete, monsieur, io credo che lei avrebbe desiderato, più di ogni altra cosa, essere quella donna. Voi non lo potete capire. Ma io l'ho sentita leggere quella lettera. Io so che è così"
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