"Io nun capisco manco 'o mare.
Nun saccio pecché 'a varca galleggia,
pecché 'o viento 'e tempesta
fa onda a mare e polvere 'n terra.
Campo a mare da che 'sso nato e nun 'o capisco.
Eppure che è? E' sulamente mare,
acqua e sale, ma è funno, funno assai"
'Tu, mio', Erri De Luca
Sembra una storia come tante. Estate al mare, amori estivi, la crescita che si compie nello spirito e nel corpo ribelle. Sembra una storia come tante, anche perché è ambientata nel primo dopoguerra in un'isola partenopea che porta ancora i segni del conflitto, ma prova a guardare oltre tra le nuove basi americane e i turisti tedeschi.
"Guardai quella ragazza nuova in faccia e le spuntò una risata limpida, sonante come fa il crollo delle monete nel salvadanaio che si rompe. E i denti, uno appena scalfito in mezzo alla bocca, squillarono di bianco tra le labbra piene e un volo di capelli si abbattè su metà della sua faccia e io sentii un calcio nel sangue. Poi finì il giro della ferita e io sentii da Daniele il nome della ragazza nuova. Si chiamava Caia"
Quella di 'Tu, mio' di Erri De Luca (Feltrinelli, 2013) sarebbe una storia come tante altre se il giovane protagonista senza nome non chiedesse conto di quanto successo, se non esigesse risposte, responsabilità, reazioni da chi però non vuole più ricordare.
Ma la storia non è ancora Storia, le ferite sono fresche, bastano due canzoni in tedesco per risvegliare gli incubi e nel corpo di un ragazzo che si fa uomo si annida molto di più di un'anima che cresce in un corpo che gli sta stretto. La voce cambia all'improvviso, i gesti ricalcano un passato sconosciuto fatto di treni e lacrime, famiglie slave, vecchi e nuovi nemici, cari scomparsi.
"-Ma si può sapere perché ti interessa tanto la guerra?
Non avevo nessuna risposta breve, naturale, come venivano a lui. Dissi solo:
-Perché è la vostra storia, la sola che non impariamo dalla voce e non dai libri.
Avrei voluto aggiungere che era la sola di cui potevo chiedere conto, perché c'erano ancora testimoni, vittime scampate e carnefici in piena salute. E uno li poteva incontrare sotto i panni di turisti venuti a spellarsi al sole o sotto il nome di una ragazza straniera di cui innamorarsi e nessuno degli adulti t'insegnava a riconoscere quei passanti, a sapere in che mondo si camminava. E io dovevo chiedere e chiedere a chi non voleva più rispondere e intanto la storia spazzava via la polvere insieme alla cenere dei bruciati e crescevano le foreste sulle fosse comuni e tutta la vita spingeva innanzi e nascondeva dietro. [...]
E se non avevo ragione cos'altro avevo da impuntarmi? Amore, sì, ma anche un ringhio di pena e una piccola furia ancora tiepida, schiuma del mio crescere veloce in quell'estate."
"Ecco, già stavo indagando su di lei, in cerca di una sua verità. Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rivelato, che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore. Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza, presso una tavolata, seduto in un giardino dove gli altri ballano al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto"
"Mi teneva nelle sue braccia, senza spingere però, con una piccola presa risoluta. Obbedivo e dentro di me succedeva un'altra età, remota, al di là degli anni. Diventavo come lei mi vedeva e voleva. Haia, Hàiele, il suo nome in testa si appoggiava alla musica, ai piedi che si sfioravano in tondo e riuscivo a sentire la risacca delle onde a riva sugli scogli. Il nome cadeva sullo scroscio. Il suo fiato mi passava sul colletto sgualcito. Non ero più un ragazzo accanto a lei. Haia, Hàiele era il respiro delle cose intorno a portare quel nome, io lo ascoltavo in testa come una regola per non vacillare, Haia, Hàiele."
Ma lui non è più un ragazzino che fa troppe domande. E quello non è un amore estivo, ma qualcosa che va più un profondità e battezza la carne con il fuoco, come il morso di una murena.
"Il morso della murena aveva lasciato un disegno di buchi, una lettera chiara sulla pelle scurita. Teneva la sua mano proprio lì e quello era il gesto più intimo che mi era stato rivolto da una donna. Toccava la superficie di un dolore, una presa pulita capace di richiamarlo come di attutirlo. Io ci sono, diceva la sua mano sulla ferita, per tutta la musica ti accompagno lontano e ti tengo il dolore nella mano"
"-Tu non sei un ragazzino, tu sei un vecchio, sei antico, uno di un'altra generazione.
Ti nomino mio antico cavaliere. [...] Sei vecchio all'improvviso, in una maniera meravigliosa,
sei qualcuno venuto da lontano come me, che si trova sbarcato su una nuova terra e ha i capelli bianchi e sta pensando a come se la potrà cavare"
"Caia era terraferma, storia femmina di un secolo che mi afferrava il bavero per amore e furia, ma non lì, non in mare. Lì ero nelle notti comuni delle estati innumerevoli della terra, ero coetaneo del pianeta, uno della sua specie insonne."
Le parole di Erri De Luca si riversano sulle pagine come onde irregolari, tra risacca e maree di pensieri ci si sente cullati e frastornati tra realtà, ricordi e scorci di silenzio. L'ho sempre osservato da lontano in attesa che rapisse. C'è voluto il richiamo del mare per convincermi al tuffo. Il resto lo ha fatto questa storia di gesti e silenzi, la 'tiepida furia' di un adolescente travolta dalla vendetta di qualcun altro, il candore e la grazia di un odio e un amore antichi. E ho provato pietà per quel ragazzo rubato a se stesso, per i genitori reticenti, per la famiglia slava del pescatore Nicola, per Caia e il suo Tate, ma in fondo per tutti noi, per il modo in cui ci dibattiamo come girini contro le onde del mondo, lasciando dietro di noi solo increspature sulla superficie dell'acqua. Ma quelle increspature ci dicono che siamo vivi, mentre altri non lo sono più e la vendetta è tanto triste quanto inutile perché nulla cambia il passato, i conti non si pareggiano mai e, sempre come ricorda Nicola, non si può odiare davvero in astratto.
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